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VALLEFOGLIA, Capitale Italiana della cultura 2024, domenica 28 gennaio percorso guidato a Montefabbri

Domenica 28 gennaio 2024, comunicano il Sindaco Sen. Palmiro Ucchielli e l’Assessore alla Cultura Dott. Mirco Calzolari, nell’ambito delle iniziative incluse nei festeggiamenti della settimana dedicata a Vallefoglia da Pesaro2024, capitale italiana della cultura, è in programma di svolgimento un percorso guidato per la visita di Montefabbri, il piccolo borgo medievale gioiello di Vallefoglia.

Il Comune di Pesaro e di Vallefoglia, in collaborazione con CSV Marche, il Centro Servizi per il Volontariato, propongono infatti la realizzazione di un percorso guidato con Alessandra Mindoli per la visita del Castello di Montefabbri incluso all’interno del progetto Fuori Pista “Castelli nascosti” ideato dalla guida.

Il programma, precisa il Sindaco, è inserito gratuitamente all’interno della settimana di Vallefoglia sul progetto “50 x 50 Capitali al quadrato” che a rotazione interessa tutti i cinquanta Comuni della Provincia di Pesaro e Urbino, si svolgerà domenica 28 gennaio 2024 dalle 9.30 fino alle 13.30 in stretta collaborazione con l’AUSER di Montefabbri che organizzerà la parte di ospitalità gastronomica.

Alleghiamo al presente comunicato, conclude il Sindaco, la locandina che pubblicizza l’iniziativa ed il progetto del percorso che verrà offerto ai visitatori con invito a partecipare per scoprire e conoscere più approfonditamente le bellezze storiche e artistiche di cui è ricco il nostro Comune.

MONTEFABBRI

Montefabbri si trova su una collina a 315 mt sul livello del mare, lungo l’antica direttrice che collega Pesaro a Urbino.

Mons Fabrorum prende il nome dalla famiglia Fabbri, antichi feudatari che, dalla prima metà del 1200, costruirono il nuovo castello; questa potente famiglia aveva giurisdizione anche nei castelli e nei villaggi vicini ed era alleata dei Montefeltro che, in quel periodo, stavano imponendo il proprio potere su Urbino. Il castello venne così costruito in una posizione strategica, accuratamente studiato: su un poggio, in cui già sorgeva la pieve di San Gaudenzio (X sec.). Gli eserciti nemici, che provenivano dal pesarese o dalla vicina Romagna e che volevano attaccare Urbino, si accampavano qui, perché questo fortilizio era un propugnacolo della città ducale verso il mare, un territorio di frontiera, tra la Romagna e il pesarese, che si contrapponeva al castello dei Malatesta a Montelevecchie (attuale Belvedere Fogliense). Dal 2006 Montefabbri è tra i borghi più belli d’Italia e, dal 2014, è nel Comune di Vallefoglia, nato dalla fusione dei comuni di Colbordolo e di Sant’Angelo in Lizzola.

Il portale d’ingresso al castello conserva l’antica arcata, che sorregge la rampa d’accesso alla porta, la quale ha sostituito il ponte levatoio. La parte superiore del portale è rimasta invece immutata: qui è collocata, dal 1600, una formella in pietra arenaria, con un bassorilievo raffigurante la Madonna del latte (XV sec),

Nella parte interna della porta, campeggia lo stemma araldico in marmo bianco, di Francesco Paciotti (del 1578, anno della sua investitura a conte di Montefabbri), valente architetto e ingegnere, autore di numerose opere civili e militari:

La torre portaia sormonta l’imponente porta d’ingresso al castello*. Dal 2009 il piccolo locale è stato adibito a sede per eventi culturali ed esposizioni artistiche.

Sulla destra, dopo la porta di accesso, affacciato sulla piccola piazza, c’è un palazzo in mattoni a vista, che fino al 1833, quando Montefabbri divenne comune soggetto a Urbino, ospitava il Palazzo Municipale, sulla facciata, era collocato un orologio, del quale resta la sagoma tondeggiante, poi inserito sulla sommità della torre campanaria della pieve di San Gaudenzio.

Il girone di mura costituisce la prima fortificazione dell’abitato: costruito nel XII secolo, per difendere Montefabbri, non ancora castello dalle continue incursioni, da parte dei signori di Rimini, di Urbino e dallo Stato della chiesa, che si contendevano il possesso del territorio. All’interno della cinta muraria, come anche sotto le fondamenta di alcune delle piccole case del paese, sono state scavate anticamente alcune grotte, usate, sin dal medioevo, per sortire fuori dal castello in caso di pericolo. 

Proseguendo, lungo le mura a est, che offrono un panorama sul monte di Colbordolo e sulla valle dell’Apsa (affluente del Foglia), si giunge a una piccola piazza, in cui tempo fa si apriva il porticato a doppia loggia del sontuoso palazzo della famiglia Paciotti (fine XVII – inizi XVIII sec), di cui resta solo l’ultimo arco a tutto sesto, sulla sinistra, che sormonta un balconcino di una delle case e la piccola nicchia.

Camminando lungo le mura meridionali, si possono ammirare alcuni scorci paesaggistici su Urbino, sulle Cesane e sui monti Carpegna e Catria. Poi, s’imbocca via del Baldo, che conduce alla torre campanaria (XV secolo), alta circa venticinque metri, è strutturata in tre stanze sovrapposte, che affianca la pieve di San Gaudenzio (X sec.): annoverata tra le quattro pievi più antiche della diocesi di Urbino, subì un notevole ampliamento nel corso della seconda metà del 1600, per impulso di Guidobaldo Paciotti.

Al suo interno, la cantoria, protetta da una balaustra (XVII secolo), costituita da cinque lastre in scagliola, decorate con scene, che rappresentano la vita di Sant’Elena e, ai lati, gli stemmi nobiliari della famiglia Paciotti e Palma. La cantoria è sovrastata dal coro, contenente un organo a canne del 1700, ancora perfettamente funzionante.

Ai lati della cantoria, si trovano due epigrafi in scagliola, che riportano le date della consacrazione della pieve (1613) e quella in cui la chiesa venne ampliata e decorata con pregevoli marmi, grazie al conte Guidobaldo Paciotti (1670).

L’altar maggiore è di rilevante interesse, poiché evidenzia la maestria delle lastre in scagliola istoriate, che rendono questa pieve un unicum nel panorama artistico regionale. La scagliola è una tecnica a intarsio che, fra 1500 e 1600, nacque per imitare i marmi e le pietre dure. Oltre alle numerose opere in scagliola che caratterizzano questo edificio sacro (datate 1687 e ritenute le più antiche nelle Marche), vi sono altre opere che impreziosiscono le navate, tra cui alcune tele baroccesche; nella navata sinistra, una piccola vasca, ricavata da una stele di origine romana in pietra, che rappresentava il fonte battesimale, in cui, in base alla tradizione orale, venne battezzato il beato Giansante Brancorsini, nel 1343, nativo di Montefabbri, morto nel 1394 e sepolto nel convento dei frati minori, di Santa Maria in Scotaneto a Mombaroccio. Egli era un giovane milite, che uccise un suo parente con un colpo di spada, per legittima difesa una sera d’estate, sulle mura di Montefabbri; sconvolto da questo evento, abbandonò la carriera militare a soli venti anni, per dedicare la propria vita alla preghiera e all’espiazione delle sue colpe.

La cripta di Santa Marcellina custodisce le reliquie della santa martire e si trova nella seconda nicchia, a sinistra dell’ingresso, che è stata ricavata da un ambiente del campanile e qui collocata negli anni ’70 del 1900. Da tempi remoti, le celebrazioni annuali, in sua memoria si tengono l’ultima domenica di luglio, quando la teca, con le sacre spoglie, viene portata in processione lungo le vie del paese.

Il sistema viario di Montefabbri è rimasto pressoché immutato, con le vie che tracciano i settori, in cui le abitazioni sono disposte a raggiera, collegate alla via delle mura, lungo tutto il girone castellano.

Dalle mura esposte a ovest, il panorama si apre su Urbino, sulle Cesane, Forquini, San Marino, Sassi Simone e Simoncello, monti Catria, Nerone.

Infine, l’antico lavatoio pubblico d’inizi Novecento, chiude il percorso: da notare la fila di mattoni disposti ad arco, che testimoniano la presenza dell’antico fossato, parte del ponte levatoio della struttura castrense.

Percorrendo la suggestiva strada della Banda Grossi, si può raggiungere il mulino località Pontevecchio e, lungo il percorso, sulla sinistra, si nota la sommità di un edificio signorile di pendio, di origine medievale: la casa natìa del beato Sante.

 

LA BANDA GROSSI

 

C’era una volta un prigioniero, alcuni dicevano fosse uno spietato, per altri invece un giusto, un coraggioso capitano per cui battersi, poiché in tempi lontani, questa Terra aspra era colma di timore e d’incertezze e della cieca consapevolezza, che a nulla poteva ambire un misero bracciante, disgraziato nella vita e nella morte. 

C’era una volta un bandito. 

 

La valle del Foglia era una terra di mezzadri e braccianti, in cui la banda reclutava i propri uomini e anche Terenzio Grossi in giovane età lavorò come bracciante. Era nato a Urbania nel 1832, ma appena ventenne, dal 1854 venne più volte arrestato dal governo pontificio, per furti, contumacia e violazione del precetto politico, cioè eluse l’obbligo di svolgere un onesto mestiere, rispettando il coprifuoco. Si arruolò latitante con i rivoluzionari garibaldini nel 1860, sperando che il nuovo Stato Sabaudo gli concedesse l’amnistia, ma ciò non avvenne. Deluso, riprese la sua latitanza, radunando renitenti alla leva e disillusi dalla politica, per opporsi al dominio piemontese. Il Grossi iniziò la sua attività con una serie di furti campestri, abigeati (furti di bestiame) e grassazioni (rapine a mano armata). Evase a più riprese dalle carceri di Sant’Angelo in Vado, di Fossombrone e in quelle di San Leo. Egli agì con la collaborazione di alcuni contadini, combattendo inizialmente le truppe pontificie, poi quelle del nuovo Stato, sparando sugli stemmi sabaudi, occupando paesi, contrastando le forze armate. 

Il periodo era molto particolare, larga parte della popolazione rurale non aveva fiducia nelle istituzioni e, nelle campagne attorno a Montefabbri, era un continuo girovagare di briganti e così si diffusero le rapine a mano armata, sulla strada dei Forquini.

 

Il 9 dicembre 1860 La Guardia Nazionale di Montefabbri (La Guardia Nazionale era una milizia isolata, senza un sostegno logistico da parte dell’esercito, composta da giovani braccianti e artigiani locali, privi di una vera coscienza politica) perlustrò la piana del Foglia, in cerca di disertori provenienti dalla vicina Romagna. Il drappello si avvicinò alla casa del predio Poderetto (la prima casa a sinistra dell’attuale strada che da Pontevecchio porta a Talacchio), appartenente alla Fraternità di Urbino, ma abitata dai Bartolomei: una numerosa famiglia di coloni, sospettati di offrire rifugio ai renitenti alla leva militare. Le guardie entrarono in casa e, nello scontro, venne ucciso un componente della famiglia e ci furono numerosi feriti da entrambe le parti. Nel frattempo, Terenzio Grossi capì che non solo lo Stato Sabaudo non gli concedeva l’amnistia, ma era anche ricercato dalla giustizia del nuovo governo, per i fatti commessi durante la dominazione pontificia e si diede alla macchia, trascinando con sé suo fratello Marco, nella sua vita scellerata. 

 

La banda di Terenzio Grossi operò su un vasto territorio collinare, evitando sempre le zone costiere: le sue imprese nacquero tra le colline, le valli, le montagne e i boschi, nei piccoli paesi dell’entroterra, per poter avere facile scampo e rifugi più sicuri. I sentieri, che correvano lungo i crinali, erano stati precedentemente battuti da altri malviventi, come i contrabbandieri e i grassatori, i quali avevano creato veri e propri percorsi, con luoghi di sosta lungo le strade che conducevano a San Marino, in Romagna, Umbria e Toscana. 

Montefabbri era un vecchio castello medievale, ubicato sulla vetta di un ubertoso colle, sulla riva sinistra del Foglia. All’epoca dei fatti che stiamo narrando, era un piccolo comune, che venne però soppresso e parte delle sue terre al di là del fiume vennero unite al comune di Montecalvo in Foglia, mentre quelle al di qua del fiume, incluso Montefabbri, vennero assoggettate a Colbordolo. Di fronte al paese, sulla riva sinistra del Foglia, passa la strada provinciale che, da Pesaro porta in Carpegna. Al di là della provinciale, nei primi mesi del 1860, era ancora segnato il confine tra lo Stato Pontificio e la Romagna, da poco soggetta al Piemonte. 

Per la posizione in altura e poco percorsa dalle forze dell’ordine e siccome era anche un luogo di confine, tra il 1859 -1860, Montefabbri rappresentò un comodo e sicuro asilo e covo di contrabbandieri e di vagabondi, per lungo tempo, finché gli eventi cancellarono per sempre il confine della nuova Italia, sulle rive del fiume Tavollo, nonostante il Grossi e i suoi sgherri vi conservassero la loro “dimora”. Il 14 gennaio 1861, il Grossi fece un’incursione a Montefabbri, costringendo gli abitanti a ritirarsi nelle proprie dimore, distruggendo lo stemma sabaudo e affermando che il nuovo Stato sarebbe presto finito, poiché “infame”. In paese egli non incontrò alcuna resistenza e nessuno difese le insegne sabaude. Per questo motivo, il segretario comunale lasciò la seguente dichiarazione: 

 

Questa mattina circa il mezzo giorno è giunto in questo castello il contumace Grossi, con due de’ suoi fedeli compagni, preceduti di circa un quarto d’ora da quel suo fido Biagio Olmeda del Gallo. Appena giunti colle armi alla mano, hanno intimato di ritirarsi alle proprie case, quelli che pel castello vedevano; hanno obbligato parecchi militi a bere con loro e qui si son fatti ad intavolare discorsi contro l’attuale governo e pubblicamente dire come questo possa reggere poco più. In questo frattempo che le scrivo, essi sono dal parroco in bivacco. La sfrontatezza del Grossi e dei suoi compagni, la timidezza dei militi nazionali sono moralmente dannosissimi all’opinione del governo ed io non vedrei che la necessità di por fine a tanto pubblico inconveniente, che intimorisce i buoni, fa baldanzosi e speranzosi i tristi, colle più energiche misure. Il nido del Grossi è sempre il Gallo e i suoi dintorni. I suoi ricettatori, consiglieri e scorte sono gli Olmeda.

 

Biagio Olmeda, nativo di Montelevecchie (Belvedere Fogliense, frazione di Tavullia), era il maniscalco di Montefabbri e membro della banda; avvisò il caporale della Guardia Nazionale, Giuseppe Cecchini, di fuggire, perché lo si voleva uccidere. Con Olmeda iniziò una fitta rete di complicità, avvertimenti e spiate, che porteranno alla fine di questo gruppo di masnadieri. 

Proprio a Montefabbri, il Grossi trovò i suoi primi adepti: due piccoli delinquenti del posto, Luigi Trebbi e Giovanni Battelli, detto Pietraccio. Vennero poi coinvolti altri abitanti: i Macchinizzi, i Romani, i Burnaccioni, i Semproni, l’oste del castello Agostino Ragni, l’oste di Pontevecchio Luigi Panzieri detto Borgogelli.  

C’era una convivenza forzata, un’omertà dettata dal terrore, una sorta di timore reverenziale, attraverso il quale Grossi (che comunque ricompensava sempre chiunque lo ospitasse, con laute mance) poté disporre a suo piacimento, del paese di Montefabbri, per l’intero anno 1861.

Dopo i fatti di Poderetto, inoltre, la guardia nazionale sparì da Montefabbri, le guardie doganali, che avrebbero dovuto contrastare il contrabbando, non reagivano ai soprusi dei malviventi. 

Il 20 Aprile 1861 il Grossi e i suoi compagni vennero visti armati e appostati lungo la strada che, da Montefabbri porta a Urbino, chiedendo a tutti coloro che vi transitavano, se fosse passato di lì Giuseppe Cecchini, fabbro ferraio del paese, che era a capo della Guardia Nazionale e che propagandava idee a favore dell’unità d’Italia, per tale motivo, il Grossi lo voleva morto e, una settimana dopo, il Cecchini inviò una lettera al giudice istruttore del “Processo Bartolomei” a Urbino, dichiarando la propria preoccupazione, a causa degli atti persecutori e minacce di morte alla sua persona, da parte di Terenzio Grossi. 

All’osteria di Pontevecchio, spesso covo di masnadieri, in una notte di aprile del 1861, la guardia nazionale tese un agguato alla banda di Terenzio Grossi, a cui seguì la cattura di un brigante. Nel 1862, sulla torre portaia, che sormonta l’imponente porta d’ingresso al castello di Montefabbri, venne collocata la sede della caserma dei carabinieri, in seguito ad un conflitto a fuoco tra le forze dell’ordine e alcuni esponenti della banda Grossi, avvenuto presso l’osteria del mulino di Pontevecchio.

Quando la banda venne sgominata, parecchi montefabbresi finirono in carcere, con l’accusa di connivenza, ma in realtà la popolazione era attanagliata dalla paura, dovuta dal timore di ritorsioni, che i montefabbresi avrebbero subito dai loro aguzzini, qualora avessero opposto resistenza; a causa di ciò, per anni, Montefabbri ha ingiustamente avuto la nomea di “paese dei ladri”.

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